Ipoacusia: nonni e nipoti così lontani (agli antipodi per l’età)
ma così vicini (per le soluzioni tecnologiche)
Estratto da: ACSA Magazine novembre 2025
Pamela Giordano
SSCVD Otorinolaringoiatria Pediatrica, Ospedale Infantile Regina Margherita Torino
L’ipoacusia è oggi una delle disabilità sensoriali più diffuse e sottostimate nel mondo. Secondo l’OMS, oltre 430 milioni di persone convivono con una perdita uditiva significativa, un numero destinato a crescere con l’invecchiamento della popolazione e con l’aumento dei fattori di rischio ambientali. Ma se tradizionalmente l’ipoacusia è associata all’età avanzata, le evidenze cliniche mostrano che il problema interessa l’intero arco della vita, dai neonati agli anziani.
Negli anziani, la presbiacusia rappresenta la forma più comune: una progressiva riduzione della capacità uditiva di natura neurosensoriale legata a processi degenerativi delle cellule cocleari e delle vie nervose centrali. I pazienti riferiscono difficoltà nel comprendere le parole, soprattutto in ambienti rumorosi, e tendono a ridurre la partecipazione sociale, con conseguenze sul benessere psicologico e cognitivo.
All’estremo opposto, i bambini possono essere colpiti da ipoacusie infantili, congenite o acquisite. Le ipoacusie congenite, presenti già alla nascita, interessano circa 1–3 neonati su 1.000 e possono derivare da cause genetiche (sindromiche o non sindromiche) o da fattori non genetici prenatali, come le infezioni materne da rosolia, CMV e toxoplasmosi, o perinatali, come l’ipossia e l’iperbilirubinemia. I programmi di screening neonatale uditivo hanno rivoluzionato la prognosi delle ipoacusie congenite, consentendo di identificarle precocemente e di intervenire tempestivamente con la riabilitazione audiologica (protesizzazione acustica o posizionamento di impianto cocleare), garantendo al bambino un adeguato sviluppo linguistico e cognitivo. Le ipoacusie acquisite, invece, si manifestano dopo la nascita e possono essere conseguenza di otiti, traumi cranici, utilizzo di farmaci ototossici o esposizione prolungata a rumori intensi. La più frequente è di natura trasmissiva, è temporanea, ed è dovuta alla presenza di muco o essudato nell’orecchio medio: si tratta della cosiddetta otite media effusiva (OME). Questa condizione, molto comune nei bambini in età pre-scolare e scolare, determina un abbassamento dell’udito di entità variabile (generalmente compreso tra 20 e 40 dB), e può avere ripercussioni significative sullo sviluppo del linguaggio, sull’apprendimento e sulla socializzazione. Per questo motivo sono fondamentali la sua individuazione precoce e il suo tempestivo trattamento, medico o chirurgico (posizionamento di drenaggio trans-timpanico), al fine di garantire al bambino un’adeguata capacità uditiva nel delicato periodo di sviluppo del linguaggio e dell’apprendimento.
I bimbi affetti da ipoacusia neurosensoriale o da ipoacusia trasmissiva non rimediabile chirurgicamente, invece, possono beneficiare delle stesse innovazioni tecnologiche di cui possono servirsi i loro nonni: dispositivi acustici digitali intelligenti, dotati di sistemi di amplificazione personalizzati e assistiti da software di ultima generazione. Gli apparecchi acustici moderni non si limitano ad amplificare il suono, ma lo elaborano in modo selettivo grazie ad algoritmi che distinguono il parlato dai rumori di fondo, migliorando la qualità della percezione e la naturalezza dell’ascolto. Nei bambini, sistemi di adattamento automatico, microfoni direzionali e connessioni wireless coi dispositivi didattici, facilitano l’apprendimento e la partecipazione scolastica. Negli anziani, la tecnologia svolge una funzione di reintegrazione sociale, migliorando la comprensione del parlato nel rumore, permettendo di telefonare o di ascoltare la televisione con chiarezza, riducendo così l’isolamento, l’inattività e il rischio di declino cognitivo.
Dalla diagnosi precoce nei bambini al recupero uditivo negli anziani, la tecnologia diventa dunque un linguaggio comune tra età diverse. La prevenzione, la diagnosi precoce e l’uso appropriato delle soluzioni protesiche rappresentano oggi un percorso condiviso che consente, a ogni età, di preservare l’udito e con esso la qualità della vita e delle relazioni.
Bibliografia
- Korver, A. M. H., et al. (2017) Congenital hearing loss. Nature Reviews Disease Primers, 3, 1–20
- Choe, G., Lee, J., Kim, T., & Sohn, Y. (2023). Hearing loss in neonates and infants. Clinical and Experimental Pediatrics, 66(1), 1-9
- Gan, R. W. C., May, B. J., et al. (2017). Hearing aids for otitis media with effusion: Do children use them? Ear and Hearing, 38(1), e12-e19
- Toptas, G. (2025). Impact of hearing aid use on cognitive skills and verbal fluency in presbycusis. Irish Journal of Medical Science.
- Morvan, P., Buisson-Savin, J., Boiteux, C., Bailly-Masson, E., Buhl, M., & Thai-Van, H. (2024).Factors in the effective use of hearing aids among subjects with age-related hearing loss: A systematic review. Journal of Clinical Medicine, 13(14), 4027.
- Vos, T., et al. (2021).Hearing loss prevalence and years lived with disability, 1990–2019: Findings from the Global Burden of Disease Study 2019. The Lancet, 397(10278), 996-1009.7. World Health Organization. (2023). Deafness and hearing loss. Fact sheet.
Alzheimer, camminare (anche poco) lo rallenta
Estratto da: Salute 4 Novembre 2025
Isabella Faggiano
Camminare, anche muovendo solo pochi passi ogni giorno, può davvero cambiare il destino del nostro cervello. Secondo uno studio pubblicato su Nature Medicine dai ricercatori del Mass General Brigham, anche un aumento modesto dell’attività fisica – da 3mila a 7.500 passi quotidiani – è associato a un rallentamento significativo del declino cognitivo nelle persone ad alto rischio di Alzheimer. Gli autori hanno analizzato i dati di 296 partecipanti cognitivamente normali, di età compresa fra 50 e 90 anni, coinvolti nello Harvard Aging Brain Study. All’inizio, erano misurati nei loro cervelli i livelli di beta-amiloide (una proteina implicata nell’Alzheimer) mediante PET, e l’attività fisica veniva valutata in modo oggettivo tramite contapassi da cintura o dispositivo simile. I ricercatori hanno poi seguito annualmente le funzioni cognitive dei partecipanti per un periodo medio di 9,3 anni.
I dati più sorprendenti
Le persone che camminavano tra 3mila e 5mila passi al giorno hanno mostrato un rallentamento del declino cognitivo di circa tre anni rispetto ai sedentari. Chi camminava tra 5mila e 7.500 passi al giorno ha beneficiato di un rallentamento pari a circa sette anni. L’effetto non è apparso legato a un rallentamento nell’accumulo di amiloide, bensì a una maggiore lentezza nell’accumulo della proteina tau, considerata un fattore più diretto del danno neuronale e del declino cognitivo. Interessante notare come il beneficio sembrasse “stabilizzarsi” oltre la soglia dei 7.500 passi, suggerendo che non servono obiettivi estremi per ottenere un effetto protettivo.
Perché questi risultati sono importanti
In molti studi osservazionali l’attività fisica è misurata tramite auto-dichiarazione, con margini di errore. In questo caso, i ricercatori hanno usato contapassi oggettivi e hanno integrato i dati di imaging cerebrale con valutazioni cognitive longitudinali. Il risultato è una fotografia precisa: l’attività fisica non riduce i livelli di amiloide, ma sembra rallentare l’accumulo della tau, con effetti positivi sulle funzioni cognitive anche in chi presenta già segni biologici di rischio. Tuttavia, è necessario sottolineare che si tratta di uno studio osservazionale, dunque non consente di affermare un rapporto di causa-effetto. Inoltre, l’attività fisica è stata misurata solo all’inizio e il campione era costituito da persone senza disturbi cognitivi, quindi i risultati non sono automaticamente estendibili a chi ha già una diagnosi di demenza.
L’uso prolungato di melatonina può far male al cuore
Estratto da: Salute 3 novembre 2025
Valentina Arcovio
L’uso prolungato di integratori a base di melatonina potrebbe comportare un rischio più elevato di diagnosi di insufficienza cardiaca, ricovero ospedaliero connesso e morte per qualsiasi causa. Lo rivela uno studio che sarà presentato alle Scientific Sessions 2025 dell’American Heart Association a New Orleans
L’uso prolungato di integratori a base di melatonina utilizzati per favorire il sonno potrebbe comportare un rischio più elevato di diagnosi di insufficienza cardiaca, ricovero ospedaliero connesso e morte per qualsiasi causa. Lo rivela uno studio che sarà presentato alle Scientific Sessions 2025 dell’American Heart Association a New Orleans, che ha coinvolto 130.828 adulti con diagnosi di insonnia. La melatonina è un ormone prodotto naturalmente dal corpo che aiuta a regolare il ciclo sonno-veglia. Versioni sintetiche sono spesso utilizzate per trattare insonnia – difficoltà ad addormentarsi e risvegli notturni – e jet lag.
L’uso di melatonina per più di un anno raddoppia il rischio insufficienza cardiaca
Gli integratori sono disponibili senza prescrizione medica in molti paesi, compresa l’Italia. Utilizzando un ampio database internazionale (il TriNetX Global Research Network), i ricercatori hanno esaminato cinque anni di cartelle cliniche elettroniche di adulti con insonnia cronica che avevano registrato l’uso di melatonina e l’avevano utilizzata per più di un anno. Questi pazienti sono stati abbinati a coetanei presenti nel database che soffrivano anch’essi di insonnia ma che non avevano mai registrato l’uso di melatonina nelle loro cartelle cliniche. È emerso che tra gli adulti con insonnia, quelli le cui cartelle cliniche elettroniche indicavano un uso prolungato di melatonina (12 mesi o più) avevano una probabilità quai doppia di sviluppare insufficienza cardiaca nell’arco di cinque anni rispetto ai non utilizzatori abbinati (rispettivamente il 4,6% di coloro che prendono melatonina contro il 2,7% di coloro che non la prendono).
Necessarie ulteriori ricerche sulla sicurezza della melatonina
Inoltre, i partecipanti che assumevano melatonina avevano una probabilità quasi 3,5 volte maggiore di essere ricoverati in ospedale per insufficienza cardiaca rispetto a quelli che non la assumevano (19% contro 6,6%, rispettivamente). E avevano una probabilità quasi doppia di morire per qualsiasi causa rispetto a quelli del gruppo che non la assumeva (7,8% contro 4,3%, rispettivamente) nel corso di un periodo di cinque anni. “Gli integratori di melatonina sono ampiamente considerati un’opzione sicura e ‘naturale’ per favorire un sonno migliore, quindi è stato sorprendente vedere aumenti così costanti e significativi di gravi conseguenze per la salute, anche dopo aver valutato molti altri fattori di rischio”, afferma Ekenedilichukwu Nnadi, autore principale dello studio. “Sebbene l’associazione che abbiamo riscontrato sollevi preoccupazioni sulla sicurezza di questo integratore ampiamente utilizzato, il nostro studio – conclude – non può dimostrare una relazione diretta di causa-effetto. Ciò significa che sono necessarie ulteriori ricerche per testare la sicurezza della melatonina per il cuore”.